L’Ucraina e l’Europa affondano sulle note di Bella ciao | Enrico Tomaselli
Il 27 settembre, il segretario generale del Partito di Dio Hassan Nasrallah è morto in seguito a un devastante bombardamento presso il quartiere Dahiya di Beirut ad opera dell’aeronautica militare israeliana, che ha anche colpito obiettivi in territorio yemenita e siriano. A sua volta, Hezbollah ha risposto con il lancio di un nugolo di missili in territorio israeliano, in attesa che l’Israeli Defense Force lanciasse l’invasione di terra (denominata “Frecce del Nord”). Una volta entrati in territorio libanese, i soldati di Tsahal hanno subito diverse imboscate riportando morti, feriti e distruzione di mezzi. L’1 ottobre, il governo di Teheran, sottoposto a forti pressioni sia interne che esterne in seguito all’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh, si è mobilitato sferrando l’Operazione True Promise-2. Nell’arco di qualche decina di minuti, dall’Iran sono partiti poco meno di duecento missili balistici contro il territorio israeliano, diversi dei quali hanno – a dispetto delle dichiarazioni di vertici di Tsahal – “bucato” le difese aeree di Tel Aviv colpendo obiettivi disseminati in tutto il Paese. Teheran ha quindi dichiarato lo stato di guerra, e messo in chiaro che le forze missilistiche iraniane bersaglieranno tutte le infrastrutture israeliane qualora Netanyahu ordini una contro-rappresaglia. Il generale Michael Kurilla, a capo del Central Command statunitense, è arrivato in Israele per coordinare, stando alla stampa israeliana, una ritorsione “commisurata” all’offesa subita. Secondo l’ex premier israeliano Naftali Bennett, che nel corso di una sconcertante intervista all’«Economist» ha affermato che Israele dovrebbe evitare qualsiasi remora pur di incutere terrore nei nemici, una riposta “proporzionata” consisterebbe nella distruzione del programma nucleare iraniano, nel rovesciamento della leadership politica del Paese e nella paralisi dei principali interessi economici iraniani, energia in primis. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, invece, ha affermato pubblicamente la propria intenzione di far sì che uno “Stato ebraico” si estenda alla Palestina, alla Siria, all’Iraq, al Libano, alla Giordania, all’Egitto e all’Arabia Saudita, poiché «è scritto che il futuro di Gerusalemme è quello di espandersi fino a Damasco». Intanto, lo scorso 3 ottobre il nuovo segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte, ha dichiarato che «il percorso dell’Ucraina verso la Nato è irreversibile», e che l’Ucraina «non è mai stata così vicina alla Nato». Rutte, in conferenza stampa a Kiev con il presidente Zelen’skyj, ha aggiunto che «arriverà il giorno in cui l’Ucraina sarà membro a pieno titolo della Nato e la Russia non ha diritto di voto né di veto in merito». Si tratta di esternazioni dissonanti non soltanto rispetto all’andamento delle operazioni sul campo di battaglia, ma anche con la mancanza a tutt’oggi di una road-map per l’ingresso del Paese nell’Alleanza Atlantica. Prospettiva, quest’ultima, rispetto alla quale gran parte degli Stati membri della Nato ha espresso chiare riserve, ed ha aggiunto che la questione non sarà concretamente affrontata finché il conflitto con la Russia è in corso. Verso quali scenari ci stiamo orientando? Proviamo a comprenderlo assieme a Enrico Tomaselli, analista geopolitico e redattore del canale Telegram «Giubbe Rosse».
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